Un Artista Mediterraneo
(DEZSŐ KERESZTURY, Il Margutta, Roma, 01 April, 1970, pp. 10-12.)
— by DEZSŐ KERESZTURY
« Che cosa viene a cercare Amerigo Tot a Tihany? ». Mi rivolgevano questa domanda parecchi conoscenti, quando si diffuse la notizia che la mostra personale dell'artista, dopo aver ottenuto tanti successi a Budapest, stava per trasferirsi, per una stagione estiva, nel museo così vantaggiosamente situato sull'altopiano sopra il Lago Balaton. « Casa sua! » — rispondevo ripetutamente.
I dirigenti del Museo di Tihany rinnovano ogni estate la nobile tradizione di accogliere, organizzando le mostre personali, negli intimi locali a volta e imbiancati dell'antico monastero, le opere dei maestri all'avanguardia nelle arti figurative in Ungheria. Lo fanno
anche affrontando, spesso, obiezioni e sfide. Ma il successo dell'iniziativa parla in loro favore e viene a confermare che i valori senza tempo e universali dell'arte possono armonizzarsi, varcando gli abissi aperti dai secoli, con quelli più moderni, e che anche le opere artistiche contemporanee trovano meritato ed illustre asilo tra le mura di questo edificio rusticamente nobile, in cui il raccoglimento delle celle è così bene accordato con l'infinito degli spazi balatoniani.
Questa volta il Museo di Tihany viene popolato dalle opere di un artista che iniziò i suoi studi in Ungheria, li compì in Germania alla Bauhaus e in Italia, dove vive, da qualche decennio: la sua patria adottiva, in omaggio alla quale egli ha modificato il suo nome, un nome che si annovera, col suo timbro metallico, fra quelli dei creatori moderni di questo globo.
Era già un avvenimento assai degno di nota la mostra di Tot nella capitale, dove l'artista evocava ogni momento essenziale della sua carriera. Il pubblico budapestino vi aveva incontrato un artista che è radicato nella corrente principale dell'arte europea: ne fa parte e ne è, anzi, uno dei demiurghi. La brace che nell'atmosfera casalinga, pesante, era cascata in cenere, in lui s'accende con alte fiammate, esposta ai forti venti del mondo. E questo artista eccellente, con gli argomenti delle sue opere, con la realtà della sua presenza, con l'autorità della sua forma mondiale, ora, ad un tratto, esercita un influsso liberatore ed insieme vincolante sulla nostra vita artistica, alquanto timida, ardita piuttosto nella imitazione, caparbia nell'opposizione e tanto spesso isolata. Egli ci libera, con l'esempio del rischio arditamente assunto della sperimentazione, ci vincola con l'istanza della ricerca che sola dà senso ad ogni esperimento.
E' una circostanza assai importante che durante l'estate migliaia di villeggianti laici possano visitare questa mostra, possano goderne, o almeno, discuterne i valori.
Ma le tradizioni locali hanno un filo assai più antico a cui questa mostra si riallaccia. I più grandi cantori e illustratori del « microcosmo balatoniano » hanno riscattato sempre la provincialità dei motivi integrandoli con le forze progressive dei movimenti europei della propria epoca. L'abitazione ruposilvestre della « ragazzaeco » di Tihany venne dal Csokonai consacrata agli ideali rousseauiani di umanità e borghesia; i boschi e le sponde di Nikla, di Keszthely e di Fiired, vennero dal Berzsenyi designati come regno degli spiriti redivivi: l'olimpo laico dell'antichità. Lőrinc Szabó fu cantore della realtà filosoficamente illuminata e cosmicamente ampliata anche negli spazi inebriati di luce del lago, dove Gyula Illyés ha attirato l'ispirazione della moderna poesia europea. Il giuoco armonizzante delle forze caratterizza anche i migliori artisti del Balaton: incominciando dal Ligeti, attraverso Telepy, da Mészöly fino a Egry, Bernath, Borsos.
Osservando le opere di Amerigo Tot, nessuno vi può contestare la presenza della modernità europea. Ma mi è stato chiesto da alcuni che cosa c'è in lui della tradizione della sua patria. Prima di tutto Amerigo Tot per me rimane sempre Imre Toth. Lo incontrai per la prima volta a Berlino, avvertendo all'istante, con una certa sicurezza inconscia, la parentela, la regione d'origine comune. Non provai la minima sorpresa nell'apprendere che fosse nato nel Transdanubio e ritenni naturale che egli, dopo decenni trascorsi all'estero, tornasse a far visita alla sua patria e che io rivedessi, la sua testa ben tagliata, modellata da febbri ed entusiasmi tra quelle dei contadini dallo sguardo serio ed aperto quali si trovano attorno al lago Balaton. Non mi si fraintenda: non ho intenzione di evocare le chimere di una qualche pseudomitologia magiara. Voglio solo accennare ai suggerimenti, penetrati nel sangue e nella memoria, delle prime impressioni della giovinezza, a quelle forze sociali che accompagnano per tutta la vita chi una volta sia loro appartenuto; lo accompagnano nelle abitudini, negli atteggiamenti consueti, incorporati negli ideali etici ed estatici. E tanto più se si tratta di un artista. Né, tantomeno, voglio rievocare, a proposito di Imre Toth, le parole immortali di Endre Ady nella « Pietra lanciata in alto ». Credo però che colui che trascurasse i tratti essenziali della sua arte, ne fraintenderebbe tutto l'insieme, non scorgerebbe in lui le manifestazioni autentiche, non semplicemente ornative, ma formative e costruttrici del popolo ungherese del Transdanubio, le quali vengono a modellarsi sull'esempio delle grandi creazioni artistiche del mondo e si elevano a livello di originalità attraverso l'impronta personale e unica del loro autore.
Quando osservo quelle teste maschie, mature, ben modellate, non so scorgervi nulla di orientale, di mongolico, ma neppure di nordico, di germanico, di celtico o di franco. Ne ho viste di simili in paesi italiani, dalmati e greci. E, seguendo questa traccia somatologica, tra scienza e poesia, s'arriva alla regione più intima, alle fonti dell'arte di Amerigo Tot - Imre Toth, alla sua patria più ampia: il Mediterraneo.
Il transdanubio, come è noto, per secoli fu provincia romana. Non solo una parte delle nostre strade odierne seguono il tracciato delle vie imperiali di una volta, non solo i nostri archeologi scoprono ogni anno sempre nuove zone che furono abitate dai romani. Nei vigneti, nella direzione dei venti, nelle vive forme della convivenza e della creazione umana, si respira, circola ed opera ancora l'eredità, in gran parte inconscia, della cultura latina che impregnò di sé profondamente queste regioni. Per me essa si manifesta soprattutto in quel senso delle proporzioni che crea l'armonia tra le contraddizioni estreme, tra il vecchio ed il nuovo, tra sogno e realtà, tra la trivialità grossolana e la liberazione per incantesimo, tra l'esperimento avventuroso e il risultato valido, tra la sobrietà ponderata e la fantasia geniale. Ma come si può definire in modo comprensivo ed esaustivo questa tradizione, quando il suo carattere più spiccato è proprio la ricchezza enorme delle sfumature, la versatilità. E' un carattere che riesce a prestare la luce della bellezza alla povertà, il pathos della muta dignità alla miseria, la saggezza del senso del reale all'impeto rivoluzionario, la rassegnazione virile al dolore mortale. Per questo è un mondo profondamente umano quello del Transdanubio, malgrado ogni suo dirupo, ogni sua turbinosità che a volte tocca la disperazione. E' un paesaggio latino con eredità latina: alcuni ne definiscono in questo modo il carattere. Ma possiamo allargare ancora lo spazio a cui esso appartiene e il cui grembo e centro è il mare Mediterraneo, è la terra natale dell'Europa ed è anche bene ricordare che il limite settentrionale del clima mediterraneo segue, all'incirca, la linea della sponda settentrionale del lago Balaton. Non solo quindi un paesaggio latino questo, e non solo conserva l'eredità della civiltà latina, ma custodisce anche il retaggio di passati più antichi, di strati più profondi; non soltanto il ricordo delle vigne e delle ville romane, ma qualcosa del retaggio dei greci e dei loro avi; non solo la maestosità del paesaggio, la sua solenne bellezza e le sue paurose ombre, ma anche l'eredità, i sogni, i risultati del lavoro di generazioni umane che si sono susseguite in questi luoghi.
L'arte di Amerigo Tot - Imre Toth si è educata allo spirito, al clima e all'umanità del Mediterraneo; ecco perché egli è familiare anche nel mondo del Balaton.
Già Nietzsche apprese da Hölderlin, e questi dalla tradizione millenaria, che la nostra concezione dell'antichità può esere integrale solo se dietro i lumi disciplinati della ragione incorporati in Apollo, noi percepiamo la presenza delle febbri e delle passioni, dei furori dionisiaci; nel sorriso altezzosamente sereno delle veneri, scorgiamo il terrodella testa mostruosa della Gorgona, e viceversa. Ultimamente ci si è dimenticati spesso di questa ambivalenza. Gli scrittori della geografia amorosa, per esempio, danno rilievo oggidì, fin troppo, ai colori, alle luci tenere, soavi e chiare, nei loro quadri che rappresentano la regione del Balaton: i dolci pendii, l'acqua serica, l'allegria dell'estate, il silenzio malinconicamente nobile dell'autunno. E' ora di ritornare, con l'attenzione, anche ai lineamenti più ombrosi, demoniaci e tormentati dalla bufera, di questo volto: alle visioni dionisiaco-gorgonee, ai tripudi feroci della natura del lago.
E in questo tentativo di recupero possono forse esserci d'ausilio gli autentici poeti ed artisti del Balaton, quali Gyula Illyés e Tibor Dery, i quali, lottando con le chimere del trapasso pronte all'assalto, hanno raggiunto qui, in questi luoghi, nuove altezze liriche; Gyula Takáts e Miklós Borsos, i quali, or non è molto, si sono inabissati in quella profondità arcaica, tumultuanti e riposanti nel seno di bellissime apparenze, ove la civiltà greco-romana stava aspettando la sua rinascita. Essi tentavano queste incursioni per far vedere più coraggiosamente la viva presenza di queste stratificazioni nel nostro mondo patrio: il cuore antico del presente.
Qualcuno potrebbe domandare perché io sto parlando di tutto ciò inaugurando la mostra di Amerigo Tot a Tihany. Ma chi ha prestato attenzione ai pensieri qui espressi e li ha seguiti fino in fondo al loro significato, non potrà dubitare: si è parlato continuamente dell'arte di Imre Toth. Si diceva che un grande artista giramondo, il quale ritrova il suo io autentico nel mondo del Mediterraneo, mondo che divorava e partoriva Dei e civiltà, è tornato a rivedere la patria d'origine, e qui egli viene accolto da una vita che gli è familiare, che attinge a fonti identiche a quelle sue e che lotta per raggiungere scopi affini a quelli suoi. Anche come « parenti » possiamo quindi dilettarci delle proporzioni umane delle sue opere, del suo realismo vigoroso che penetra nel profondo delle belle apparenze e rivela con coraggio, energia e senso della misura il sorriso felice e l'orrore vertiginoso della vita, la quiete della materia in sé riposante e l'irrequietezza del pensiero guizzante. Nelle sue opere possiamo attingere ispirazione per ricercare e rievocare le autentiche, essenziali visioni del nostro nuovo mondo, per affrontare vittoriosamente le forze che sommuovono la nostra vita: gli angeli e i diavoli della nostra epoca, i geni puri e i demoni mostruosi, per intuirli alla luce della ragione illuminata e per rappresentarli con la magia dell'arte. E' questa la ragione ultima delle opere che sfilano davanti a noi, siano esse intime o sfidanti, fedeli alle appa-renze oppure indagatrici dei segreti delle strutture della realtà, siano esse felici dispensatrici di serenità o istigatrici di protesta, rappresentino il mondo tradizionale dell'uomo oppure l'orizzonte dei segreti sovrumani. Il messaggio di Tot è un messaggio di fede, una proposta di fede: sciogliere gli enigmi degli angeli e dei mostri della nostra epoca, perché solo sfidandoli, denominandoli, raffigurandoli, potremo forse, finalmente, dominarli.